In questi giorni sto leggendo un libro che tratta della prima guerra mondiale, di cui ovviamente vi parlerò appena lo avrò finito. Il libro è Ci rivediamo Lassù di Pierre Lemaitre e parla di due reduci della prima guerra mondiale.
Questo libro mi sta facendo riflettere su mio bisnonno Giovanni. Anche lui reduce della prima guerra mondiale e poi ovviamente insignito del titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto. Non ho mai avuto il piacere di conoscerlo, è morto proprio quando avevo un mese e i miei genitori mi stavano portando per la prima volta al paese della mia famiglia.
L'ho quindi conosciuto solo attraverso i racconti di famiglia.
Era un uomo duro, un padre padrone che ha imposto il marito a 4 delle sue figlie.
Per certi versi lo rivedo tra le righe del libro. Ieri sera leggevo una pagina dove veniva descritto il protagonista e si diceva che comunque ogni reduce porta qualche ferita grave oltre che nel fisico anche nell'animo.
Il mio bisnonno perse una gamba.
Ho sempre creduto che l'avesse persa in battaglia, in trincea.
Allora ho chiesto a mia mamma se sapeva dove il nonno aveva combattuto (anche per vedere se magari nel suo tragitto avesse anche solo potuto incontrare Hemingway). Ovviamente la mamma non si ricordava queste cose, ma sapeva come aveva perso la gamba. Il nonno era stato fatto prigioniero e deportato in Germania e la gamba l'aveva persa nel viaggio di ritorno in Italia. Pensa un po' che sfortuna ritrovarsi mutilato in viaggio a guerra finita e non in battaglia.
Comunque essendo invalido di guerra il nonno ebbe numerosi vantaggi, come un posto statale in città che poco dopo abbandonò. A lui la città proprio non piaceva. E mia nonna gli portò rancore tutta la vita per questa scelta. A lei non piaceva vivere in campagna, lei voleva vivere in città. La sua famiglia aveva avuto l'opportunità ma il padre non volle coglierla.
Pensando a quello che ho letto su questo libro e non avendolo conosciuto immagino che le privazioni sofferte in trincea, l'incubo del viaggio di ritorno, il perdere una gamba, abbiano succitato in lui il bisogno di tornare in seno alla famiglia, nella tranquillità di un piccolo paese e allontanarsi il più possibile dalla città dove circolavano quelle idee che avevano partorito la Grande Guerra.
Ma la nonna questo non poteva saperlo. Negli anni 30 del secolo scorso i genitori non parlavano ai figli, erano trincerati dietro al loro mutismo. Non c'era spazio per le spiegazioni, c'erano solo comandi. E la scuola l'aveva interrotta in quarta elementare e non aveva avuto poi nessun'altra istruzione se non un corso di taglio e poi i libri di mia mamma e di mia zia, che comunque non narravano la storia contemporanea come invece oggi possiamo farlo meglio ad un secolo di distanza.
Se la nonna ci fosse ancora, affronterei con lei il discorso. Ora che sono grande e che ahimè abbiamo gli stessi gusti, passerei interi pomeriggi a discutere con lei di storia e di letteratura, e anche di Kenya. Lei che guardava ogni giorno i documentari e io che ho visto con i miei occhi animali e pesci che lei guardava in tv. Avremmo potuto parlarne per ore intere. Invece questo mi è precluso. I nonni sono presenti nella tua infanzia, quando sei ancora troppo piccolo per discutere di cose importanti, poi la gioventù ti porta lontano, non certo a riflettere sulla Grande Guerra. E quando inizia a riflettere su questo non hai più nessuno a cui parlarne se non te stesso.
E quel poco che so sulla mia famiglia continuo a scriverlo ovunque in modo che non vada perso, che un domani le mie figlie e chi verrà dopo possa apprenderlo e tramandarlo alle future generazioni.
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